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D.Lgs. 81/08: sicurezza nei luoghi di lavoro ed enti locali

D.Lgs. 81/08: sicurezza nei luoghi di lavoro ed enti locali


Profili di responsabilità penale nel nuovo sistema della sicurezza del lavoro; nodi critici degli enti locali.

(a cura dell’avv. Aldo Mirate)

 

Si vuole in questa sede esporre brevissimi e sommari accenni alle principali problematiche che sorgono ad una prima lettura del testo dello stesso d.lgs. 81/2008 per l’applicazione concreta della nuova normativa sulla sicurezza dei luoghi di lavoro nell’ambito della Pubblica Amministrazione e degli enti locali in particolare.

 

I soggetti “attori” della sicurezza.

 

Com’è noto destinatari dei precetti prevenzionali sono innanzitutto il datore di lavoro, il dirigente ed il preposto anche se la responsabilità di questi ultimi per eventuali eventi infortunistici non esclude la responsabilità di soggetti diversi a titolo di concorso o di cooperazione colposa nel reato.

La nozione di datore di lavoro pubblico è scolpita nitidamente nell’art. 2, comma 1, lett. b) dello stesso d.lgs.; norma che richiama a sua volta l’art. 1 del d.lgs. 165/2001 e che chiarisce che per “datore di lavoro” si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione ovvero il funzionario, non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui a quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni.

Prevede lo stesso art. 2, lett. b), che, “in caso di omessa individuazione o di individuazione non conforme” ai criteri di legge, “il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”.

Alcune osservazioni al riguardo si impongono:

1) la norma predetta costituisce espressione del principio già sancito dall’art. 4, comma 2, del D.Lgs. 165/ 2001 e dall’art. 7 D.Lgs. 267/2000 dai quali si evince che, nell’ambito degli enti locali, gli organi di governo elettivi sono titolari dei poteri di indirizzo politico-amministrativo mentre ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa delle risorse assegnate e la gestione del personale; in altre parole, il principio suaccennato è espressione della distinzione acquisita storicamente nell’ordinamento degli enti locali tra la “funzione di governo”, assegnata alla competenza dei vertici delle amministrazioni pubbliche e la “funzione di gestione”, demandata agli organi burocratici dell’apparato amministrativo; questi ultimi non hanno del resto vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale rispetto all’organo politico, essendo riconosciuta loro la titolarità dei poteri di autonomia gestionale e di spesa che è propria dei datori di lavoro privati.

 2) in mancanza della figura dirigenziale, la norma consente di identificare il datore di lavoro col funzionario pubblico – non avente qualifica dirigenziale – che è preposto ad un ufficio pubblico avente autonomia gestionale. Ciò può però avvenire a due condizioni:

a) la prima, di tipo oggettivo, si identifica con l’esistenza di un ufficio pubblico che presenti caratteristiche di autonomia gestionale, vale a dire di un ufficio che si caratterizzi come una unità organizzativa specificamente individuata;

b) la seconda, di carattere soggettivo, è che il preposto all’ufficio debba essere dotato di poteri decisionali e di spesa; in altre parole, in questo secondo caso – come ha affermato la Cassazione in una nota sentenza – la responsabilità può essere configurata solo se il soggetto abbia la titolarità effettiva del potere gestionale, con attribuzione di poteri di spesa; titolarità che gli deve essere conferita con atto formale (Cass. Pen. Sez. VI, 7.10. 2004, Beltrami);

3) nel caso in cui una pubblica amministrazione abbia più livelli dirigenziali dovrà essere individuato il dirigente che assume la funzione di datore di lavoro a fini prevenzionistici; anche in questo caso l’individuazione dovrà essere fatta con atto formale. In caso di omessa corretta individuazione, prevede l’ultima parte della b) dell’art. 2, “il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”.

Si ritiene che l’assunzione di responsabilità, da parte dei soggetti individuati dalla legge o a seguito di un provvedimento motivato del sindaco, non sia declinabile in quanto inerente alla funzione attribuita.  

 

Il concorso nel reato del sindaco e/o degli amministratori.

 

Un tema che si pone è se il sindaco e, più in generale, gli organi o i soggetti di indirizzo politico possano concorrere nella responsabilità penale col dirigente o preposto; ciò ovviamente nel caso in cui i dirigenti, come sopra individuati, omettano condotte doverose ai fini della garanzia delle condizioni di sicurezza e salubrità nei luoghi di lavoro, cagionando eventi infortunistici o malattie professionali.

La giurisprudenza di legittimità, pur ribadendo sempre il principio di separazione tra funzione politica e funzione amministrativa che caratterizza l’ordinamento dei comuni e delle province, ha ancora, con una recente sentenza (Cass. Pen. Sez. III, 12.6.2007, D’Ambrosio, ISL, 2007, 691), ribadito l’indirizzo secondo il quale la responsabilità penale del sindaco può “configurarsi o per la mancata predisposizione delle relative risorse, essendo quella della sicurezza una esigenza prioritaria ovvero qualora risulti che fosse a conoscenza della situazione antigiuridica ed abbia omesso di provvedere senza giustificazione”.

E’ principio costante della giurisprudenza di legittimità (del tutto coerente coi principi che regolano, in ambito privato, la funzione esoneratrice di responsabilità della delega validamente conferita con riferimento al dovere di vigilanza e al così detto “dovere di organizzazione”) che il sindaco, qualora dovesse rimanere colposamente inerte di fronte a situazioni antigiuridiche da lui conosciute o doverosamente conoscibili, gli sarebbe riconosciuta una responsabilità in quanto egli ha pur sempre una posizione di garanzia che gli è assegnata dall’ordinamento. Del resto tale giurisprudenza fa corretta applicazione del principio dettato dall’art. 40, comma 2, c.p. (“non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”).

A maggior ragione, l’amministratore è tenuto a rispondere se la violazione di legge non è imputabile al soggetto delegato (ex lege o in forza di atto amministrativo), ma a difetti strutturali imputabili all’organo politico ed inerenti al buon funzionamento della struttura amministrativa. 

 

I modelli di organizzazione e di gestione.

 

Un ulteriore, tra i tantissimi problemi che dovrebbero essere trattati, è il problema dei modelli di organizzazione e di gestione della responsabilità dell’ente pubblico (comune o provincia).

Si tratta di una problematica estremamente complessa, ma una prima osservazione si impone: a mio avviso, e ad avviso della più autorevole dottrina, non è applicabile agli enti locali territoriali il d.lgs. 231/2001; decreto che, capovolgendo il principio basilare del nostro ordinamento secondo il quale “societas delinquere non potest”, ha previsto pesanti sanzioni pecuniarie ed interdittive per gli enti forniti di personalità giuridica per reati commessi da loro dipendenti; reati tra i quali, con L. 3.8.2007, n. 123, sono stati compresi anche le lesioni colpose e gli omicidi colposi conseguenti a infortuni sul lavoro od a malattie professionali.

Pacificamente, infatti, l’ambito di operatività del medesimo D.Lgs. 231 si estende agli enti pubblici economici e chiarisce che per “persone giuridiche si intendono gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri”.

Tuttavia, il nuovo d.lgs. 81/2008 recepisce, sia pure con una operatività limitata alla sicurezza sul lavoro, la figura del “modello organizzativo e di gestione” che è uno strumento introdotto nel nostro ordinamento, in modo compiuto, proprio dal d.lgs. 231.

E’ stato giustamente osservato che i modelli organizzativi sono gli strumenti di organizzazione della vita dell’ente e devono essere modellati sulla realtà lavorativa dell’ente medesimo contraddistinguendosi per pragmaticità, efficienza e dinamicità.

Preliminare alla costruzione di un corretto modello di “organizzazione e gestione” è la cosiddetta “mappatura del rischio”, cioè l’individuazione delle aree sensibili e l’elaborazione per ognuna di esse di specifici protocolli di prevenzione che regolino le attività pericolose.

L’ultimo comma dell’art. 30 introduce una presunzione di idoneità dei modelli di organizzazione aziendale quando gli stessi siano conformi alle linee guida UNI-INAIL o al British Standard OHSAS, anche se non esclude l’utilizzabilità di altri sistemi.

In ultima analisi, la costruzione di un modello che sia aderente ai modelli-tipo predetti ed il rispetto delle normative e procedure contemplate porterebbe, secondo alcuni orientamenti dottrinari, ad una presunzione di esonero di responsabilità dei dirigenti e funzionari dell’ente ed avrebbe, quindi, una funzione esimente.

            In dottrina si è fatto giustamente osservare che la norma così interpretata potrebbe porsi in conflitto col principio costituzionale di esclusiva soggezione del giudice alla legge.

Preferibile sembra l’indirizzo dottrinario che interpreta la disposizione nel senso che essa può comportare un’inversione dell’onere della prova dell’inidoneità del modello adottato, in conformità alle linee guida indicate.

Compete, peraltro, sempre al giudice verificare se siano state correttamente individuate le aree di rischio nell’ambito dell’attività dell’ente, se siano stati previsti protocolli comportamentali idonei per la corretta formazione ed attuazione della volontà dell’ente e se il sistema sanzionatorio  e di controllo risulti efficace.

Va peraltro rilevato che i modelli predetti si configurano, in ogni caso, per gli stessi dirigenti, come strumenti operativi indispensabili per la vigilanza sull’operato dei lavoratori dipendenti.

Al riguardo, va osservato che sarà indispensabile, peraltro, adattare i modelli organizzativi alla realtà concreta dei comuni; enti spesso di piccolissima dimensione, con pochi dipendenti.

E’ auspicabile che in questo caso venga consentita l’adozione di modelli semplificati che, ferma restando la loro idoneità a prevenire il “rischio – reato  ipotizzabile, siano concretamente attuabili ed utilizzabili.

In ogni caso utile potrà essere la consulenza degli enti pubblici aventi compiti in materia di salute e sicurezza sul lavoro che a norma dell’art. 9, lett. c), hanno, fra l’altro, un compito di consulenza a favore delle realtà minori (la legge parla solo di “aziende, in particolare alle medie, piccole e micro imprese”, ma è auspicabile che altrettanto possa avvenire con gli enti pubblici territoriali minori) e altrettanto possa avvenire a norma dell’art. 10 da parte delle stesse Regioni.

E’ certamente apprezzabile la scelta del legislatore che con l’art. 9 tende, da una parte, a configurare un nuovo rapporto tra gli enti di controllo ed i “soggetti debitori di sicurezza” sui luoghi di lavoro e, dall’altra parte, rende possibile una valutazione preliminare “senza rischi” per i datori di lavoro (significativa è la previsione che, nell’esercizio dell’attività di consulenza, non vi sia l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p. anche nell’ipotesi in cui venissero in rilievo illeciti contravvenzionali penalmente rilevanti).

 

Il sistema sanzionatorio.

 

Poche cose da dire sul sistema sanzionatorio: è stato infatti sostanzialmente confermato l’apparato sanzionatorio che era contemplato dal D.Lgs. 626 e dal D.Lgs. 494 salvo modifiche quantitative.

E’ stato altresì confermato il procedimento in materia di prescrizione e di estinzione del reato che è stato a suo tempo introdotto dagli art. 20 e segg. D.Lgs. 758/94.

Innovative sono invece le disposizioni in materia processuale e che possono essere così sintetizzate:

a)      in caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose, commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro, il PM deve dare immediata comunicazione all’INAIL (oltre all’IPSEMA, per i lavoratori marittimi) affinché l’Istituto possa eventualmente costituirsi parte civile ed esercitare nei confronti dei soggetti penalmente responsabili l’azione di regresso per le somme che lo stesso Istituto sarà tenuto a pagare a titolo di indennità e di rendita;

b)      l’art. 61 prevede che le organizzazioni sindacali e le associazioni familiari delle vittime di infortuni o di malattie professionali abbiano la possibilità di esercitare nel processo penale i diritti e le facoltà della persona offesa. Si tratta di una forma di “intervento nel processo” già prevista dall’art. 91 c.p.p. che consente alle associazioni rappresentative di “interessi lesi dal reato” di presentare memorie ed indicare elementi di prova. Tale facoltà è peraltro subordinata al consenso della persona offesa.

 

Avv. Aldo Mirate

 

 

 

 

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La presente notizia è stata redatta a cura dell’ avvocato Aldo Mirate, in Asti nel mese di settembre 2008.

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